Il TAR del Lazio si è pronunciato sul ricorso proposto dalle società Tecnoschool Srl, Pafal Srl, Titel Srl, Alfabyte Srl, Web Europe Srl, Alfanet Srl per l’annullamento dei provvedimenti n. 23744 e n. 38177 adottati dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Ricordiamo che con tali provvedimenti l’Autorità aveva, prima, dichiarato che queste società avevano posto in essere pratiche commerciali scorrette vietate ai sensi degli artt. 20, 21 lett. b) e d) e 22 del Codice del Consumo avendo diffuso tramite sito internet www.titel.it, telemarketing, visite a domicilio ed opuscoli informativi, informazioni ingannevoli e omissive finalizzate a pubblicizzare dei corsi di informatica a pagamento e, successivamente, accertato la reiterazione di tali comportamenti.

In particolare,” si legge nella sentenza, “durante la telefonata per chiedere un appuntamento al domicilio del consumatore venivano fornite informazioni oscure e poco trasparenti circa le caratteristiche dei corsi promossi. Le medesime informazioni venivano fornite anche nel corso della successiva visita a domicilio, durante la quale venivano sottoposti ai contratti a titolo oneroso, dal costo variabile da circa Euro 2.600 a circa Euro 3.300, da stipulare, spesso previa sottoscrizione di un finanziamento; analogamente nel dépliant e nel sito internet venivano prospettati, contrariamente al vero, periodi di stage presso note imprese di informatica e il rilascio di titoli aventi valore legale, così come altre certificazioni informatiche riconosciute a livello ministeriale, spendibili ai fini della ricerca di un attività lavorativa o presso il sistema scolastico”. Pertanto tutte le richieste delle società coinvolte sono state rigettate dal TAR e, di conseguenza, le condotte ingannevoli così come le sanzioni sono state integralmente confermate. Questo importante provvedimento permette ora ai cittadini destinatari delle pratiche commerciali scorrette di chiedere tutela. Pubblichiamo di seguito la sentenza integrale.

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T.A.R. Lazio Roma Sez. I, Sent., 03-09-2014, n. 9314

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8438 del 2012, proposto da:

Pafal Srl, Titel Srl, Alfabyte Srl, Web Europe Srl, Alfanet Srl, Tecnoschool Srl, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi dall’avv.[…], presso il cui studio in Roma, via […], sono elettivamente domiciliati;

contro

L’, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale domicilia in Roma, via […];

sul ricorso numero di registro generale 11121 del 2013, proposto da:

Pafal Srl, Titel Srl, Web Europe Srl, Tecnoschool Srl, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi dall’avv. […], presso il cui studio in Roma, via Fabio Massimo, 60, sono elettivamente domiciliate;

contro

L’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale domicilia in Roma, via […];

per l’annullamento

quanto al ricorso n. 8438 del 2012:

– del provvedimento n. 23744, conclusivo del proc. n. ps/6576, assunto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nell’Adunanza del 18 luglio 2012, comunicato in data 30 luglio 2012 con il quale è stata dichiarata pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 20, 21 lett. b) e d) e 22 del codice del consumo l’aver diffuso tramite telemarketing, visite a domicilio dei consumatori, un opuscolo informativo e il sito internet www.titel.it, informazioni ingannevoli e omissive finalizzate a pubblicizzare dei corsi di informatica a pagamento;

– di ogni altro provvedimento presupposto, connesso e conseguente e le relative risultanze istruttorie;.

quanto al ricorso n. 11121 del 2013:

del provvedimento n. 38177 assunto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nell’adunanza del 10 luglio 2013 e comunicato alle società in data 25 luglio 2013 relativo alla conclusione del procedimento n. IP177, avviato in data 20.2.2013, ai sensi dell’art. 27, comma 12, del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, recante “Codice del Consumo”, e successive modificazioni, nei confronti delle società Pafal s.r.l., Titel s.r.l., Tecnoschool s.r.l. e Web Europe s.r.l. per violazione della delibera n. 23744 adottata dall’Autorità nell’adunanza dl 18 luglio 2012.

Visti i ricorsi e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 luglio 2014 la dott.ssa Roberta Cicchese e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Con il ricorso n. 8438/2012 le società Pafal Srl, Titel Srl, Alfabyte Srl, Web Europe Srl, Alfanet Srl e Tecnoschool Srl, le quali pur nella loro autonomia giuridica ed economica, sono tutte riconducibili ad un’unica famiglia, hanno impugnato il Provv. n. 23744 del 18 luglio 2012, con il quale l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha dichiarato pratica commerciale scorretta, ai sensi degli artt. 20, 21 lett. b) e d) e 22 del codice del consumo, l’aver diffuso tramite telemarketing, visite a domicilio dei consumatori, un opuscolo informativo e il sito internet www.titel.it, informazioni ingannevoli e omissive finalizzate a pubblicizzare dei corsi di informatica a pagamento, irrogando, di conseguenza, a ciascuna di essa, una sanzione pecuniaria e disponendo la pubblicazione della delibera.

In subordine le ricorrenti hanno chiesto la rideterminazione, in misura inferiore, delle sanzioni loro applicate, ovvero l’irrogazione di un’unica sanzione globale a carico delle società del gruppo Pafal.

Il ricorso è affidato alle seguenti censure:

– Genericità e contraddittorietà del provvedimento, difetto di istruttoria ed eccesso di potere.

Il provvedimento impugnato presenterebbe gravi lacune istruttorie, con particolare riferimento alla parte in cui, ritenendo la condotta ascrivibile a varie società del gruppo Pafal, non avrebbe ricostruito il comportamento autonomamente addebitabile a ciascuna impresa e tale da determinare l’irrogazione della sanzione.

Il procedimento, poi, sarebbe stato attivato sulla base delle segnalazioni di consumatori, in buona parte inattendibili o perché contraddette da altre (in punto di asserita gratuità del corso), o perché meramente strumentali ad un esercizio tardivo del diritto di recesso o, perché, addirittura, anonime.

– Insussistenza degli elementi integranti la violazione degli artt. 20, 21 lettera b) e d) del codice del consumo – Insussistenza delle violazioni.

Il provvedimento emesso dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato si baserebbe su una erronea ricostruzione dei fatti e su una non condivisibile qualificazione degli stessi.

– Violazione dell’art. 27, comma 12, del D.Lgs. n. 206 del 6 settembre 2005, dell’art. 11 della L. 24 novembre 1981, n. 689, per difetto di motivazione e violazione del principio di proporzionalità tra la sanzione inflitte e la valutazione della durata, gravità ed offensività della condotta.

Le sanzioni irrogate a ciascuna società del gruppo non si concilierebbero con il fatto che gli accertamenti non sono stati svolti con riferimento alle condotte delle singole imprese, avendo riguardato complessivamente l’attività del gruppo. L’importo quantificato, poi, non terrebbe conto del comportamento collaborativo della Pafal nel corso del procedimento e delle condizioni economiche dei singoli soggetti sanzionati, tanto più che l’esistenza stessa del procedimento e la pubblicità data allo stesso, avrebbero già causato danni rilevanti alle società medesime.

L’Autorità garante della concorrenza e del mercato si è costituita in giudizio e ha chiesto il rigetto del ricorso.

Alla camera di consiglio del 30 ottobre 2012, l’istanza di sospensione cautelare del provvedimento impugnato è stata accolta limitatamente alla parte in cui il provvedimento disponeva la pubblicazione della delibera impugnata su due quotidiani e sul sito Internet www. titel.it.

Con il successivo ricorso n. 11121/2013, quattro delle originarie ricorrenti hanno impugnato il Provv. n. 38177 del 10 luglio 2013, con il quale l’Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato, rilevata la loro inottemperanza al proprio Provv. n. 23744 del 18 luglio 2012, ha irrogato a ciascuna di esse una sanzione pecuniaria.

In subordine le ricorrenti hanno chiesto la rideterminazione, in misura inferiore, delle sanzioni loro irrogate ovvero l’irrogazione a carico delle società del gruppo Pafal di un’unica sanzione globale.

Avverso il provvedimento gravato le ricorrenti hanno articolato le seguenti censure:

– Tardività del provvedimento sanzionatorio, violazione dell’art. 7 del regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali scorrette.

Il provvedimento impugnato, emesso oltre il termine di 120 giorni dall’inizio del procedimento, avrebbe violato le disposizioni regolamentari disciplinanti la procedura istruttoria in materia di pratiche commerciali scorrette.

– Genericità e contraddittorietà del provvedimento, difetto di istruttoria ed eccesso di potere.

La censura ribadisce i profili di illegittimità della Delib. n. 23744 del 2012, già articolati con il primo motivo di doglianza del ricorso n. 8438/12, rappresentando la mancata individuazione delle condotte singolarmente imputabili alle imprese sanzionate e la non utilizzabilità delle denunce da cui ha preso origine il primo provvedimento sanzionatorio.

– Insussistenza degli elementi integranti la violazione dell’art. 27, comma 12, del codice del consumo, Insussistenza degli elementi integranti la violazione degli artt. 20, 21 lettera b) e d) del codice del consumo – Insussistenza delle violazioni.

Anche questo motivo è svolto con richiamo alle censure già svolte avverso il provvedimento di accertamento della pratica commerciale scorretta, rilevando come il Provv. n. 23744 del 18 luglio 2012 si baserebbe su una erronea ricostruzione dei fatti e su una erronea qualificazione degli stessi.

– Violazione dell’art. 27, comma 11, del D.Lgs. n. 206 del 6 settembre 2005, dell’art. 11 della L. 24 novembre 1981, n. 689, per difetto di motivazione e violazione del principio di proporzionalità tra la sanzione inflitte e la valutazione della durata, gravità ed offensività della condotta.

Le sanzioni irrogate alle singole società avrebbero avuto riguardo al valore della produzione risultante dai bilanci 2011, anziché agli utili. Inoltre la irrogazione di distinte sanzioni per le società destinatarie del provvedimento sanzionatorio non si concilierebbero con il fatto che gli accertamenti non sono stati svolti con riferimento alle condotte delle singole imprese, ma al gruppo nel suo complesso.

L’importo quantificato, poi, non terrebbe conto del fatto che la reiterazione ha avuto ad oggetto un periodo estremamente breve (agosto 2012 – febbraio 2013), né del comportamento collaborativo della Pafal tenuto nel corso del procedimento.

Le ricorrenti rappresentano, infine, come l’esistenza stessa del procedimento e della pubblicità data allo stesso avrebbero già causato danni rilevanti alle società medesime.

L’Autorità garante della concorrenza e del mercato si è costituita in giudizio e ha chiesto il rigetto del ricorso.

Alla camera di consiglio del 19 dicembre 2013, l’istanza di sospensione cautelare del provvedimento impugnato è stata accolta.

All’udienza pubblica del 12 marzo 2014 entrambi i ricorsi sono stati trattenuti in decisione.

Preliminarmente deve essere disposta la riunione dei ricorsi, stante la loro parziale connessione soggettiva e oggettiva.

Nel ricorso n. 8438/2012 si controverte della legittimità del provvedimento con il quale l’Autorità Garante per la concorrenza ed il mercato (d’ora in poi anche Autorità o AGCM) ha sanzionato la pratica commerciale, posta in essere dalla ricorrenti, consistita “nell’aver diffuso, tramite telemarketing, visite al domicilio dei consumatori, un opuscolo informativo e il sito internet www.titel.it , informazioni ingannevoli o omissive finalizzate a pubblicizzare dei corsi di informatica a pagamento. In particolare, durante la telefonata per chiedere un appuntamento al domicilio del consumatore venivano fornite informazioni oscure e poco trasparenti circa le caratteristiche dei corsi promossi. Le medesime informazioni venivano fornite anche nel corso della successiva visita a domicilio, durante la quale venivano sottoposti ai consumatori contratti a titolo oneroso, dal costo variabile da circa Euro 2.600 a circa Euro 3.300, da stipulare, spesso previa sottoscrizione di un finanziamento; analogamente nel dépliant e nel sito internet venivano prospettati, contrariamente al vero, periodi di stage presso note imprese di informatica e il rilascio di titoli aventi valore legale, così come altre certificazioni informatiche riconosciute a livello ministeriale, spendibili ai fini della ricerca di un attività lavorativa o presso il sistema scolastico”.

La condotta così descritta è stata ritenuta in contrasto con l’art. 20, comma 1, del codice del consumo, che vieta le pratiche commerciali scorrette, con il successivo art. 21, che qualifica come ingannevole una pratica commerciale “che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio …” su aspetti riguardanti, tra gli altri, le caratteristiche principali del prodotto, i vantaggi, l’esecuzione, il prezzo o il modo in cui questo è calcolato o l’esistenza di uno specifico vantaggio quanto al prezzo, e con l’art. 22, comma 2, il quale stabilisce che “una pratica commerciale è altresì considerata un’omissione ingannevole quando un professionista occulta o presenta in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui al comma 1 .. quando ciò induce o è idoneo a indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso“.

Dal testo della delibera, con particolare riferimento alla parte in cui vengono illustrate le risultanze istruttorie sulla base delle quali è stata ritenuta la sussistenza di una pratica commerciale scorretta, si rileva che:

a) nel corso della pratica di “aggancio”, normalmente svolta a mezzo di telefonate al domicilio dei potenziali acquirenti, non veniva fornita alcuna indicazione sui costi dei corsi di informatica o sui criteri di calcolo degli stessi; in sostanza l’indicazione veniva omessa o genericamente rinviata alla successiva visita del consulente didattico, salva la rappresentazione al destinatario della proposta della possibilità di usufruire di “agevolazioni economiche”, (cfr. par. 28, nella parte in cui reca la trascrizione degli script acquisiti in sede di ispezione presso le sedi delle società Titel, Tecnoschoole Web Europe e destinati agli operatori di call center);

b) sempre nel primo approccio telefonico non si fornivano informazioni sulle concrete caratteristiche dei corsi;

c) durante la medesima telefonata veniva fatto esplicito riferimento al fatto che la proposta commerciale riguardava master individuali e personalizzati al termine dei quali “è previsto uno stage di 500 ore, (ancora al par. 28, trascrizione dello script, sia con riferimento alla parte iniziale della conversazione, che nella parte relativa al foglio separato contenente le motivazioni, in cui veniva pure aggiunto che lo stage si sarebbe stato svolto presso imprese interessate all’assunzione delle corrispondenti figure professionali, inoltre par. 38, nella parte in cui riferisce il contenuto del dépliant, che pure si esprime in termini di altissima probabilità di accedere allo stage, e par. 40, per quanto attiene al sito internet);

d) al termine del corso il discente si sarebbe “diplomato” ottenendo le certificazioni “Microsoft o Adobe” riconosciute a livello internazionale (ancora al par. 28, trascrizione dello script e par. 29);

e) nel corso della telefonata e delle successive visite a domicilio veniva prospettato con enfasi il collegamento tra la frequenza del corso e la possibilità di ottenere una occupazione lavorativa (ancora par. 28 e 29, sia con riferimento alla trascrizione dello script che al contenuto delle visite a domicilio, quest’ultimo desunto da numerose dichiarazioni di consumatori, puntualmente indicate nelle note 38, 39, 40 e 41 del par. 31, l’alto numero delle quali è sicuramente sintomatico di intrinseca attendibilità);

f) con riferimento al valore della certificazione P.E.K.I.T. (Permanent Education and Knowledge in Information Technology), il messaggio pubblicitario diffuso affermava che “il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca con provvedimento del 25 giugno 2010, avente Prot. AOODGPERS 6235, a seguito di esplicita richiesta della Fondazione Sviluppo Europa, distributore dei programmi di Formazione e Certificazione P.E.K.I.T. (Permanent Education and Knowledge in Information Technology) ha statuito la piena equiparazione della predetta certificazione, ai fini pubblicistici con le certificazioni attualmente riconosciute” (cfr. par. 41, contenente la descrizione del sito internet, nonché par. 28, nella parte in cui riporta le motivazioni da fornire ai consumatori, ove si afferma che le certificazioni sono riconosciute a livello internazionale e ministeriale);

g) sempre con riferimento al prospettato rilascio, all’esito del corso, di titoli aventi valore legale, in più circostanze veniva usato il termine diplomi (cfr. par. 28, con riferimento alla trascrizione dello script) o master (cfr., in particolare, par. 54 a proposito del contenuto del sito internet) ed in un caso si parla di “master on line con l’Università Bocconi o con la Luiss Guido Carli di Roma” (cfr. sempre par. 28, nella parte in cui riporta il contenuto della segnalazione di un consumatore);

h) nel corso del procedimento le società, benché richieste, non hanno prodotto alcuna documentazione attestante l’effettivo svolgimento, da parte dei corsisti, di stage presso aziende italiane, mentre le copie di accordi con imprese che hanno dichiarato la disponibilità ad accogliere in stage i partecipanti ai corsi sono in tutto due, né è stata prodotta documentazione attestante il riconoscimento di crediti formativi o in punteggi di esame o laurea, come prospettato nel dépliant.

Prima di procedere all’esame delle censure di parte ricorrente è opportuno dunque evidenziare come, a giudizio dell’Autorità, la pratica commerciale scorretta si è articolata nelle seguenti condotte:

a) aver fornito una informazione omissiva con riferimento alla quantificazione del prezzo dei corsi proposti, nella fase di pubblicità avvenuta mediante telemarketing;

b) aver fornito una informazione inesatta, incompleta e non veridica con riferimento alla prospettata possibilità di accedere ad uno stage al termine del corso;

c) aver fornito una informazione inesatta, incompleta e non veridica con riferimento alla natura e al valore del titolo rilasciato.

Con riferimento all’assenza di indicazioni relative al prezzo nel corso della telefonata di aggancio nessuna contestazione è mossa dalla società (che invece contesta l’affermazione, riportata nella sola descrizione dell’istruttoria e, comunque, non utilizzata dall’Autorità nel definire la condotta sanzionata e nell’esprimere le valutazioni definitive, secondo cui il corso sarebbe stato pubblicizzato come gratuito).

Sempre in punto di opacità del messaggio in relazione al costo del corso, deve rilevarsi che, nel primo contatto, non venivano forniti neppure criteri per la determinazione del medesimo, del quale si riferiva solo che sarebbe stato determinato dalle scelte concrete del cliente e che sarebbe stato conveniente.

La condotta, dunque, anche alla luce del tipo di prove raccolte sul punto (trascrizione degli script acquisiti in sede di ispezione presso le società), deve ritenersi sussistente.

Neppure è efficacemente contestata la affermazione secondo cui nell’operazione di telemarketing e nei contatti successivi e sul sito veniva prospettata, in termini di ragionevole certezza o comunque di alta probabilità, la frequenza di uno stage presso note imprese di informatica, né è contestato che i presunti stage, nella maggior parte dei casi, non abbiano avuto luogo, anche in considerazione del fatto che vi erano accordi per lo svolgimento dello stage con due sole imprese in tutto il territorio nazionale.

Lo scarsissimo indice di attivazione dei corsi è stato confermato dal rappresentante del gruppo Pafal anche in sede di audizione.

Più articolata è la questione attinente alla natura e al valore dei titoli rilasciati all’esito dei corsi.

Sul punto l’Autorità ha rilevato nel provvedimento come le società ricorrenti abbiano utilizzato i termini diploma e master, quest’ultimo talvolta associato ad una attività di collaborazione con Università; ha altresì evidenziato come le ricorrenti abbiano attribuito alla certificazione P.E.K.I.T., rilasciata in esisto al superamento dell’esame finale, la valenza di titolo internazionale e nazionale.

In particolare, nelle risultanze istruttorie, si evidenzia come nel sito internet, in relazione alla suddetta certificazione, si afferma che “Il Ministero dell’Istruzione e dell’Università e della Ricerca con Provv. del 25 giugno 2010, avente Prot. AOODGPERS 6235, a seguito di esplicita richiesta della Fondazione Sviluppo Europa, distributore dei programmi di Formazione e Certificazione P.E.K.I.T. (Permanent Education and Knowledg in Information Techology) ha statuito la piena equiparazione della predetta certificazione ai fini pubblicistici con le altre certificazioni attualmente riconosciute“.

Ancora, ha evidenziato l’Autorità, che nella pagina web del sito si legge che “Sotto il profilo pratico, economico e sociale, viene definitivamente e coraggiosamente stabilito, sulla scorta anche di precedenti pronunce giurisprudenziali quali quelle del TAR Lazio e dell’Autorità Garante della Concorrenza e del mercato, che ECDL, IC3, EIPASS e MOS non sono le uniche e sole certificazioni informatiche esistenti in Italia, valide per accertare le competenze nell’utilizzo del PC., ma che, al contrario, compete con esse, a pieno titolo e con pari dignità, la certificazione P.E.K.I.T. nel novero delle certificazioni riconosciute non solo dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, ma anche di quegli ulteriori Ministeri e/o Centri che richiedono l’obbligatorietà dell’accertamento delle conoscenze informatiche nei concorsi pubblici per il personale delle pubbliche amministrazioni“.

Sul punto occorre considerare come il Ministero dell’Istruzione, rispondendo a specifico quesito dell’Autorità ha affermato che:

“1) le società Pafal s.r.l., Titel s.r.l, Tecnoschool s.r.l. e Web Europe s.r.l , nonché la SVEAC s.r.l. e la Fondazione Sviluppo Europa non sono soggetti qualificati o accreditati dal MIUR; 2) le predette società non rientrano tra gli enti di formazione accreditati/qualificati ai sensi della Direttiva n. 90/2003; 3) la certificazione P.E.K.I.T. non è stata prevista dal D.M. del 21 settembre 2012, n. 81, come nessun altra certificazione informatica; si può riconoscere la sostanziale equipollenza della certificazione P.E.K.I.T. alla certificazione ECDL (cd patente Europea); 4) non è previsto un ufficio del MIUR incaricato del riconoscimento della certificazione P.E.K.I.T.; 5) la suddetta attestazione professionale non è riconosciuta titolo valutabile nelle graduatorie del personale docente, ma può essere inserita nell’Anagrafe della professionalità docente .”

La rilevata non veridicità delle affermazioni delle ricorrenti appare dunque confermata sotto la maggior parte dei profili contestati, ad eccezione della sostenuta equivalenza tra la certificazione P.E.K.I.T. e la certificazione ECDL, in relazione alla quale, tuttavia, la citata decisione del TAR Lazio ha puntualmente precisato come “la c.d. “Patente Europea del Computer” non è infatti un titolo di studio o abilitazione riconosciuta dall’Unione Europea, ma esclusivamente un marchio industriale, tutelato da un brevetto comunitario (n. 655274) registrato anche in Italia“, traendone l’ulteriore conseguenza secondo cui “proprio perché si tratta di una metodica potenzialmente equivalente ad altri standard base (tra cui anche quella in possesso della ricorrente) per l’alfabetizzazione informatica, l’ECDL, difettando del carattere della unicità assoluta, non poteva essere assunta a parametro tecnico per una legittima deroga dalle regole Europee poste a tutela della concorrenza, della libertà di iniziativa economica e del mercato“, aspetti, questi ultimi, tutti taciuti nei messaggi in esame.

Appare chiaro in conclusione come, ad eccezione del rappresentato profilo di equivalenza ad un titolo, peraltro, a sua volta, privo di valenza pubblicistica, e pur volendo considerare la prospettazione di parte secondo cui l’utilizzo del termine master, privo dell’aggettivo universitario, non configura un utilizzo illegittimo del titolo di studio, il messaggio nella sua interezza presentava numerosi e prevalenti profili di incompletezza e non veridicità, idonei, nel loro complesso, ad integrare la decettività dell’informazione che la delibera impugnata ha inteso sanzionare.

Il provvedimento, infatti, in maniera logica e coerente, evidenzia l’ambiguità e la non attendibilità del complesso delle informazioni fornite che, per la particolare modalità di presentazione, apparivano, nel loro insieme, idonee a trarre in inganno il consumatore (sulla legittimità di una valutazione complessiva del messaggio in cui, pur ricorrendo aspetti di non mendacità, le indicazioni fornite producano un effetto “confusorio” determinato dalla mancanza di chiarezza circa il tipo di offerta formativa proposto, da ultimo T.A.R. Lazio, Roma, 16 giugno 2014, n. 6343).

La prevalenza della valutazione complessiva, anche in presenza di informazioni parzialmente rispondenti al vero, del resto, è già sancita a livello normativo dall’art. 21 del codice del consumo, il cui art. 22 sottolinea pure la particolare rilevanza da attribuire agli effetti distorsivi del messaggio sul comportamento del consumatore.

Può dunque passarsi all’esame dei singoli motivi di ricorso, con la precisazione che le censure ribadite in più punti verranno prese in esame una sola volta.

Con il primo motivo di doglianza le ricorrenti lamentano genericità e contraddittorietà del provvedimento, difetto di istruttoria ed eccesso di potere.

Esse sostengono che la descrizione della condotta sanzionata sia generica in quanto globalmente riferita a tutte le società interessate, senza differenziazione e specifica individuazione dei vari comportamenti ascrivibili a ciascuna di esse.

Nella stessa censura le ricorrenti contestano poi la veridicità (e, di conseguenza, l’idoneità ad attivare il procedimento) delle segnalazioni in cui i consumatori avrebbero fatto riferimento alla pubblicità dei corsi come gratuiti, sostenendo, inoltre, che il procedimento non poteva trarre spunto dai commenti anonimi riportati nei blog né da ulteriori lamentele di consumatori, a loro giudizio riconducibili ad una tardiva decisione di recesso.

Riferiscono, infine, come il numero di denuncianti, rapportato al numero dei sottoscrittori di contratti, sia estremamente esiguo e lamentano l’erroneità delle modalità istruttorie seguite dall’Autorità che, nel chiedere informazioni ai soggetti che avevano avuto rapporti col gruppo Pafal, avrebbe formulato il quesito in modo tale da suggerire la risposta.

La prospettazione non può essere condivisa.

Quanto al primo aspetto rappresentato, deve osservarsi come il provvedimento, già nella parte I, dedicata all’individuazione delle parti, descrive l’attività svolta da ciascuna società del gruppo nell’ambito della condotta complessivamente posta in essere.

Più dettagliatamente, poi, nella parte III, dedicata alle risultanze del procedimento, al paragrafo 2.1. la delibera, nel descrivere i “legami societari e l’organizzazione delle attività svolte dalle società parti del procedimento“, indica, con puntuali riferimenti anche alla successione cronologica dei fatti, le condotte ascrivibili alle singole società e il modo in cui i soggetti coinvolti, riconducibili ad un unico gruppo, interagivano tra di loro, tenendo infine conto dei diversi ruoli nella determinazione delle singole sanzioni.

Con riferimento alle contestazioni riguardanti le segnalazioni da cui ha tratto origine il procedimento, poi, deve preliminarmente rilevarsi come nel provvedimento sanzionatorio in materia di pratiche commerciali scorrette la produzione di esposti e segnalazioni all’A.G.C.M. ha valore di atto negoziale utile ai fini dell’esercizio dei poteri di controllo e vigilanza devoluti alla competenza dell’autorità; sulla base di tali atti d’impulso, poi, l’amministrazione procede d’ufficio, non rimanendo condizionata, quanto ai limiti e all’oggetto del provvedere, dalla prospettazione ed elementi introdotti dal segnalante (Consiglio di Stato, sez. VI ,27 ottobre 2011, 5785).

Nello specifico, in ogni caso e considerati i richiami alle doglianze contenuti in altri punti del ricorso, si osserva quanto segue.

Con riferimento alla contestazione mossa dalle ricorrenti alle segnalazioni che avrebbero sostenuto la prospettata gratuità dei corsi deve rilevarsi, come già sopra evidenziato, che il provvedimento, sia in sede di descrizione delle pratiche commerciali (parte II, lettera A), che in sede di valutazioni conclusive, abbia contestato, in relazione al prezzo del corso, l’opacità del messaggio – privo di elementi idonei, fin da subito, a farne comprendere con chiarezza le caratteristiche contenutistiche ed economiche – e non la falsità.

Il riferimento alla prospettata gratuità del corso è contenuto solo nel paragrafo 2.2, relativo alle informazioni fornite dai consumatori, ma a tale circostanza, tuttavia, non è collegata una autonoma incidenza sulla contestazione e sulla valutazione finale.

Analogamente deve dirsi con riferimento alla parte di censura con la quale le ricorrenti lamentano l’utilizzo di segnalazioni anonime contenute nei blog.

Ed infatti anche l’esistenza di tali “proteste”, menzionate tra le risultanze istruttorie, si rileva priva di efficacia causale autonoma nell’accertamento complessivo dei fatti contestati, la prova dei quali è, più che sufficientemente, correlata agli elementi probatori acquisiti in sede di ispezione, di verifica del sito e di acquisizione di dichiarazioni riferibili a consumatori determinati.

La asserita generale riconducibilità delle segnalazioni di questi ultimi ad uno preteso esercizio tardivo del diritto di recesso, poi, appare del tutto sfornita di prova e conseguentemente inidonea a dimostrare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni medesime ai fini dell’accertamento della sussistenza dei fatti, peraltro irrilevante alla luce di quanto sopra osservato in ordine al valore degli atti di denuncia nel procedimento antitrust.

Analoga valutazione va infine fatta con riferimento alla prospettata formulazione in termini suggestivi del quesito rivolto dall’Autorità ai consumatori, tanto più che le dichiarazioni dei sottoscrittori di contratti, riportate nella delibera, attengono spesso a profili ulteriori ed estranei alla domanda posta agli stessi.

Con specifico riferimento all’incompletezza del messaggio inizialmente rivolto ai consumatori in relazione all’elemento prezzo – particolarmente importante nel caso di specie, in considerazione del fatto che l’offerta commerciale era rivolta a studenti, inoccupati, disoccupati e anziani – non può sostenersi che la scorrettezza della pratica è comunque scongiurata dal fatto che questo veniva reso noto nel corso della successiva visita didattica, risultando non scalfita da tale evenienza l’incompletezza del messaggio utilizzato nella fase di aggancio.

Sul punto, peraltro, la giurisprudenza amministrativa, anche della Sezione, è granitica nel ritenere che la completezza e la veridicità di un messaggio promozionale va verificata nell’ambito dello stesso contesto di comunicazione commerciale e non già sulla base di ulteriori informazioni che l’operatore commerciale rende disponibili solo a effetto promozionale già avvenuto, avendo il legislatore inteso salvaguardare la libertà di autodeterminazione del consumatore sin dal primo contatto pubblicitario, imponendo dunque al professionista un particolare onere di chiarezza nei messaggi promozionali (Tar Lazio, Roma, I, 4 luglio 2013, n. 6596/2013, con ampi richiami giurisprudenziali ).

Quanto all’esiguo numero di denuncianti, infine, deve ricordarsi come, nell’assetto di interessi disciplinato dal decreto legislativo n. 206/2005, le norme a tutela del consumo delineano una fattispecie di “ pericolo ”, “essendo preordinate a prevenire le possibili distorsioni delle iniziative commerciali nella fase pubblicitaria, prodromica a quella negoziale, sicché non è richiesto all’autorità di dare contezza del maturarsi di un pregiudizio economico per i consumatori, essendo sufficiente la potenziale lesione della loro libera determinazione” (cfr., ex multis, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 04 febbraio 2013, n. 1177).

Conclusivamente, con riferimento all’istruttoria, va definitivamente affermata la sufficienza e completezza della stessa, in quanto prevalentemente basata sulle risultanze delle ispezioni e degli accessi, come puntualmente riportato sia nelle premesse della delibera che nella parte motiva della stessa.

Con il secondo motivo di doglianza le ricorrenti hanno lamentato insussistenza degli elementi integranti la violazione degli artt. 20, 21 lettera b) e d) del codice del consumo ed insussistenza delle violazioni.

La censura – premessa la non condivisibile affermazione secondo cui non vi sarebbe prova del contenuto delle telefonate di aggancio, che, invece, come visto, è stata correttamente desunta dall’Autorità dalla trascrizione del contenuto dello script consegnato agli operatori del call center – analizza singole affermazioni contenute negli opuscoli, la pretesa veridicità delle quali comporterebbe, secondo la prospettazione di parte, l’inattendibilità del complessivo giudizio di ingannevolezza del messaggio posto dall’Autorità alla base del provvedimento sanzionatorio.

Con riferimento alla doglianza in generale è opportuno richiamare quanto sopra osservato in ordine alla legittimità della valutazione complessiva dell’informazione pubblicitaria fornita dal professionista.

Tale valutazione è, infatti, strettamente correlata alla finalità di garanzia della libertà del destinatario di autodeterminarsi al riparo da ogni possibile influenza, anche indiretta, che possa anche solo teoricamente incidere sulle sue scelte economiche, perseguita dal legislatore in una complessiva ottica di anticipazione della tutela alla fase di prevenzione.

Le singole atomistiche contestazioni riferite ad aspetti del messaggio del tutto marginali nell’economia complessiva del giudizio posto in essere dall’AGCM, di conseguenze, devono ritenersi inidonee ad inficiare la correttezza della valutazione dell’amministrazione.

Nel merito delle contestazioni, e seguendo lo schema argomentativo usato dalle parti, in ogni caso, si osserva che:

a) il provvedimento, pur dando atto dell’enfasi posta dalle ricorrenti sulle prospettive di lavoro derivanti dal conseguimento del titolo proposto, non afferma in alcun modo che l’opuscolo prometteva in termini di certezza un posto di lavoro, con conseguente irrilevanza del fatto che il dépliant contenesse, oltre ai profili di non veridicità e inesattezza in ordine alla previsione dello stage e del valore del titolo, anche affermazioni prive di analoghi profili di ingannevolezza, inerenti le differenze tra formazione on line e formazione tradizionale o riguardanti la sproporzione tra domanda e offerta di lavoro;

b) identica valutazione va fatta per le affermazioni contenute nel dépliant in ordine all’utilità della certificazione informatica in generale per accedere al mondo del lavoro e alla possibilità di mostrare le proprie capacità alle aziende nel corso di uno stage;

c) la sentenza del TAR Lazio n. 5632 del 2004, che avrebbe affermato “la fine del monopolio della certificazione ECDL”, come enfaticamente riferito nel messaggio, risulta comunque richiamata in modo improprio, atteso il fatto che la citazione della stessa, nel sito internet relativo ai corsi, lascia intendere che l’equiparazione aumenti il valore del titolo rilasciato dalle ricorrenti e nulla dice sul fatto che la medesima decisione ha affermato la valenza di mero marchio industriale della cd patente Europea del computer;

d) analoga considerazione, in forza del fatto che entrambe le certificazioni appaiono prive di rilievo pubblicistico, può essere fatta con riferimento alla equipollenza tra i due titoli riconosciuta dal MIUR;

e) a nulla rileva l’esistenza di analogia tra il contenuto del messaggio pubblicitario diffuso da Titel e quello diffuso da società concorrenti che rilasciano la certificazione ECDL, atteso che l’Autorità non è tenuta, al fine di verificare la sussistenza di una pratica commerciale scorretta, ad una valutazione comparativa con imprese in potenziale competizione con quelle sanzionate;

f) la menzione della certificazione P.E.K.I.T. in eventuali concorsi e selezioni non attribuisce al titolo medesimo un riconoscimento ufficiale, mai intervenuto, alla luce di quanto affermato dal M.I.U.R.;

g) la circostanza che la TESI AUTOMAZIONE s.r.l., che sulla base di apposito contratto, ha riconosciuto a Pafal s.r.l. la qualifica di centro accreditato al rilascio delle certificazioni MICROSOFT IC3, MICROSOFT MOS E ADOBE CERIFIED ASSOCIATE, opera una monitoraggio periodico delle concessionarie della licenza, nulla aggiunge al valore dei titoli ed opera su un piano strettamente privatistico;

h) a nulla rileva la confusione asseritamente operata dall’Autorità tra “licenza” e “certificazione”, atteso che non è chiaro in che modo la stessa avrebbe influito sulla, più volte sottolineata, complessiva inattendibilità del messaggio.

Va, infine, respinto il terzo e ultimo motivo di doglianza, con il quale le ricorrenti hanno lamentato violazione dell’art. 27 del D.Lgs. n. 206 del 6 settembre 2005, sostenendo l’erroneità della determinazione della sanzione sotto il profilo della autonoma riferibilità delle condotte alle singole società, alla non inganevolezza della pratica e alla sua circoscritta gravità, alla non particolare durata violazione e al fatto che le sanzioni sono state rapportate ai ricavi invece che agli utili dei soggetti sanzionati.

Quanto all’esistenza della pratica commerciale scorretta e alla riferibilità alle singole società si è già detto sopra.

Quanto agli ulteriori parametri dei quali si prospetta la lesione, deve ricordarsi, preliminarmente, come, ai sensi dell’art. 27, comma 9, “con il provvedimento che vieta la pratica commerciale scorretta, l’Autorità dispone, inoltre, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000,00 Euro a 5.000.000 Euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione”.

Le sanzioni in concreto irrogate oscillano tra i 10.000 e i 25.000 Euro, importi non particolarmente distanti dal minimo, e sono puntualmente correlate alla gravità della violazione, desunta dall’ampia diffusione dei messaggi pubblicitari e della pluralità di strumenti utilizzati, alcuni dei quali caratterizzati da notevole capacità di penetrazione e della particolare vulnerabilità dei destinatari dei messaggi oggetto di valutazione.

Corretto appare pure, alla luce del disposto dell’art. 15 della L. n. 287 del 1990 e della consolidata applicazione della normativa in materia, il riferimento ai ricavi anziché agli utili.

Quanto alla pretesa condotta collaborativa di Pafal e alla dipendente idoneità della stessa a consentire una diminuzione dell’importo della sanzione, non pare che la stessa possa ritenersi integrata, come prospettato, nella mera ottemperanza alle richieste istruttorie dell’autorità procedente, tanto più che la delibera evidenzia pure come i comportamenti sanzionati erano ancora in corso al momento di emanazione dell’atto.

La valutazione effettuata dall’Autorità al fine della determinazione degli importi delle sanzioni amministrative appare, in conclusione, logica e correttamente correlata a tutti i richiamati parametri normativi.

Non può, infine, accogliersi la richiesta di annullamento della sanzione della pubblicazione della delibera ai sensi dell’art. 27, comma 8 del codice del consumo.

La disposizione citata stabilisce che con il provvedimento che irroga la sanzione pecuniaria “può essere disposta, a cura e spese del professionista, la pubblicazione della delibera, anche per estratto, ovvero di un’apposita dichiarazione rettificativa, in modo da impedire che le pratiche commerciali scorrette continuino a produrre effetti“.

Nel caso in esame, infatti, l’autorità ha correttamente collegato l’applicazione di tale ulteriore misura all’attualità della pratica al momento dell’irrogazione della sanzione.

Per tutto quanto precede, il ricorso n. 843/2012 deve essere respinto.

Può quindi passarsi all’esame del ricorso n. 11121/2013, oggetto del quale è il provvedimento con cui l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, rilevata l’inottemperanza al proprio precedente provvedimento n. 23744 del 2012 da parte di quattro società del gruppo Pafal, ha irrogato loro la sanzione prevista dall’art. 27, comma 12 del Codice del consumo.

Con il primo motivo di ricorso le ricorrenti sostengono la tardività del provvedimento sanzionatorio, emesso, in asserita violazione dell’art. 7 del regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali scorrette, oltre il termine di 120 giorni dall’inizio del procedimento.

La prospettazione non può essere condivisa.

Come già affermato più volte dalla Sezione, il procedimento di verifica dell’inottemperanza, di cui al comma 12 dell’art. 27 del codice del consumo, non è riconducibile ad un procedimento di accertamento dell’esistenza di pratiche commerciali scorrette, con la conseguenza che la disciplina applicabile non è quella invocata dalla ricorrente, ma quella di carattere generale contenuta nella L. n. 689 del 1981 (TAR Lazio, sez. I, 28 marzo 2013, n. 3209, 27 settembre 2012, n. 8170 e 8 aprile 2009, n. 3723).

Il secondo e il terzo motivo di doglianza, benché non parlino espressamente di invalidità derivata, non individuano profili propri di illegittimità del provvedimento che sanziona la reiterazione della pratica commerciale scorretta, ma riproducono le censure già spese nel ricorso n. 8438/2012 avverso il Provv. n. 23744 del 18 luglio 2012.

E’ quindi sufficiente richiamare quanto sopra detto in relazione all’infondatezza dei corrispondenti motivi di ricorso.

Va infine respinto anche il quarto motivo di ricorso con il quale le ricorrenti hanno lamentato violazione dell’art. 27 del D.Lgs. n. 206 del 6 settembre 2005, sostenendo l’erroneità della determinazione della sanzione sotto il profilo della autonoma riferibilità delle condotte alle singole società, alla non inganevolezza della pratica e alla sua circoscritta gravità, alla non particolare durata violazione e al fatto che le sanzioni sono state rapportate ai ricavi invece che agli utili dei soggetti sanzionati.

Quanto all’esistenza della pratica commerciale scorretta e alla riferibilità alle singole società si è già detto sopra.

Quanto agli ulteriori parametri dei quali si prospetta la lesione, deve ricordarsi, preliminarmente, come, ai sensi dell’art. 27, comma 12, “In caso di inottemperanza ai provvedimenti d’urgenza e a quelli inibitori o di rimozione degli effetti di cui ai commi 3, 8 e 10 ed in caso di mancato rispetto degli impegni assunti ai sensi del comma 7, l’Autorità applica una sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 5.000.000 Euro“.

Le sanzioni in concreto irrogate oscillano tra i 40.000 e i 45.000 Euro, anche in questo caso piuttosto vicine al minimo di legge, e sono puntualmente correlate alla gravità della violazione, desunta dall’ampia diffusione dei messaggi pubblicitari e della pluralità di strumenti utilizzati, alcuni dei quali caratterizzati da notevole capacità di penetrazione, della particolare vulnerabilità dei destinatari dei messaggi oggetto di valutazione, dalla durata della pratica (accertata in relazione al periodo agosto 2012 – marzo 2013).

Corretto appare pure, alla luce del disposto dell’art. 15 della L. n. 287 del 1990 e della consolidata applicazione della normativa in materia, il riferimento ai ricavi anziché agli utili.

Quanto alla pretesa condotta collaborativa di Pafal e alla dipendente idoneità della stessa a consentire una diminuzione dell’importo della sanzione, anche in questo caso non pare che la stessa possa ritenersi integrata, come prospettato, nella mera ottemperanza alle richieste istruttorie dell’autorità procedente, tanto più se si considera che si tratta di un provvedimento adottato a seguito di inottemperanza e che non risultano allegati in atti altri fatti concreti da cui desumere un comportamento utilmente valutabile ai fini della diminuzione della sanzione.

La valutazione effettuata dall’Autorità al fine della determinazione degli importi delle sanzioni amministrative appare, in conclusione, logica e correttamente correlata a tutti i richiamati parametri normativi.

Per tutto quanto precede, anche il ricorso n. 11121/2013 deve essere respinto.

La spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima)

definitivamente pronunciando sui ricorsi, come in epigrafe proposti:

li riunisce;

li respinge;

condanna le ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 3.000,00 (tremila/00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 luglio 2014 con l’intervento dei magistrati:

Anna Bottiglieri, Presidente FF

Rosa Perna, Consigliere

Roberta Cicchese, Consigliere, Estensore