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Al Festival dell’economia di Trento c’era la folla delle grandi occasioni ad ascoltare Dale Mortensen, economista vincitore del Nobel nel 2010 assieme a Pissarides. Al centro del suo intervento, la stagnazione occupazionale in Europa, contrapposta alla lenta, graduale ripresa che si registra negli Stati Uniti, anche se pesa l’incognita delle prossime elezioni tra Barack Obama e Mitt Romney.
Per Mortensen, la ricetta “giusta” per l’Europa è quella di una crescita finanziata dall’indebitamento. Quest’ultimo dovrebbe essere negoziato dal paese più forte della Ue, la Germania, capace di spuntare tassi di interesse non dissimili da quelli statunitensi. Il premio nobel è pioniere della teoria della ricerca dell’impiego e della disoccupazione frizionale, teoria che ha esteso agli studi sul turnover della manodopera, al settore ricerca e sviluppo, alle relazioni personali e alla riallocazione del lavoro. Il modello che ha contribuito a sviluppare è ora tecnica di punta per l’analisi dei mercati del lavoro e degli effetti della politica del mercato del lavoro.
Lo sviluppo di modelli dinamici di equilibrio creati per spiegare la dispersione salariale, il comportamento “time series” dei flussi di lavoro e dei lavoratori e il ruolo della riallocazione nella determinazione di crescita e produttività globale sono i temi principali delle sue attuali ricerche. Ha ricevuto il premio Nobel per l’Economia nel 2010 insieme a Peter A. Diamond e Christopher Pissarides per i loro studi sulle frizioni dei mercati. Per il professore dell’ Aarhus University è auspicabile, in prospettiva, anche l’emissione di eurobond e soprattutto una comune politica fiscale. In quanto alle tutele per i lavoratori, Mortensen è dell’idea che il mercato, e con esso i lavoratori, necessitino soprattutto di flessibilità.
La protezione dei lavoratori non crea di per sé disoccupazione ma ha un impatto negativo sulla crescita. Mortesen ha detto però che i contratti a termine non sono stati, in Italia, uno strumento efficace contro la disoccupazione giovanile; dunque bisognerebbe poter offrire contratti di lavoro a più lunga scadenza, ma non a tempo indeterminato. Per dimostrare questo utilizza la curva di Beveridge che è una rappresentazione grafica del rapporto tra la disoccupazione e il tasso dei posti di lavoro vacanti. La curva prende il nome da William Beveridge, economista e sociologo britannico. La curva è utile per delineare diversi tipi di disoccupazione:
Mortesen ci spiega che questa condizione di flessibilità sembra essere divenuta la normalità. In altre parole, l’essere impiegati in modo flessibile determina una nuova categoria di disagio, un disagio normale perché ormai cronico in quanto i lavoratori atipici non hanno mai staccato i ponti rispetto alla famiglia d’origine.
Insomma, il calore della nicchia familiare sembra essere un ottimo baluardo contro le conseguenze delle minori tutele collettive e rendo meno stringente il nodo della costruzione del futuro. Anche se il crescente peso sulle spalle finanziarie e relazionali delle famiglie del costo della flessibilità e della competitività del sistema delle imprese rischia di sovraccaricare le reti familiari rallentandone la spinta come polmone finanziario. In sostanza chiosa il professore Nobel per l’economia l’attuale flessibilità “si traduce più in una riduzione di tutele e costi che nella promozione di un’effettiva mobilità indotta su di una competizione su conoscenza ed innovazione. Tutto ciò rischia di accentuare la contrazione della voglia di investire sul futuro”. Nonostante che la grande maggioranza dei lavoratori dichiara di avere idee abbastanza chiare sul futuro ed è convinta che nei prossimi anni si ridurrà l’ampiezza della copertura per sanità e previdenza, la maggior parte non fa nulla per garantirsi una vecchiaia serena o perché non ha i soldi necessari o perché non ha trovato il tempo per informarsi.
Emiliano Galati